Alcuni giorni fa dalle pagine del Corriere della Sera il cardinale Martini si è interrogato sull’opportunità di “fermarsi un po’ a pensare, prima di riprendere la discussione sul testamento biologico”. E’ necessario, secondo l’ex arcivescovo di Milano, fare chiarezza su quali siano i mezzi “ordinari” di terapia e quali quelli “straordinari”, poiché sarebbe alquanto singolare che una persona cosciente possa rifiutare i primi, mentre, nel fine vita debba obbligatoriamente subire i secondi, pur se indirizzati al mantenimento della vita in sé e senza alcuna prospettiva di miglioramento della malattia. Si tratta di riflessioni illuminate, di un uomo di cultura di stampo liberale, che, a mio giudizio, dovrebbero far riflettere chi, sentendosi più cattolico di un cardinale, incita al fondamentalismo, ritenendosi il detentore della verità, senza lasciare spazio alle tesi altrui, pur provenendo da fonti autorevoli e scevre da qualsiasi faziosità. Purtroppo, il testo del DDL sulle disposizioni del fine-vita, licenziato al Senato, è stato condizionato da quell’ondata emotiva suscitata dal caso Englaro e, pertanto, non ha goduto dei tempi di studio e riflessione che un tema così delicato e privato avrebbe, a mio avviso, richiesto. Abbiamo, perciò, assistito ad uno scontro, muro contro muro, tra i sostenitori del valore della vita, intesa come un bene inalienabile ed indisponibile, persino dal suo titolare, e i fautori dell’autonomia della persona, che rivendicano il diritto alle proprie scelte. I primi attribuiscono alla vita una sacralità che va dal concepimento alla morte naturale (e qui, il concetto di “naturale” andrebbe chiarito); i secondi rivendicano il diritto di morire con dignità, quando la medicina non è più in grado di migliorare le proprie condizioni di esistenza. E da questi due punti di vista che nasce una riflessione: è giusto che uno stato che si definisce laico, debba, per legge, imporre una visione religiosa della vita, visto che tra i cittadini vi sono anche gli agnostici, i non credenti ed i diversamente credenti? E’ giusto che chi ha costruito durante la propria vita una immagine dignitosa, nel lavoro e con i suoi familiari, col sopraggiungere di una malattia, veda la sua dignità annegare, nel periodo che precede la morte, in un letto umido e maleodorante di escrementi, costringendo le persone che ha amato ad accudirlo, senza la speranza di vederlo migliorare?
E’ evidente che oggi, i progressi della medicina consentono un prolungamento artificiale della vita e quindi, un rinvio artificiale della morte: gli antibiotici, i respiratori meccanici, l’alimentazione parenterale e mille altre diavolerie sono in grado di rinviare sine die il momento del trapasso. In Italia sarebbero almeno 3000 le persone “senza speranza” che languono in un letto in una condizione che la medicina ufficiale definisce “vita vegetativa”. Uno stato ben definito: una situazione post-comatosa caratterizzata da un’involuzione atrofico-degenerativa della corteccia cerebrale, associata alla perdita di qualsiasi funzione superiore, come la parola, l’udito, la sete, la fame, il dolore… Si tratta, quindi, di una condizione irreversibile per definizione, in cui non è appropriato parlare di sofferenza, né di fame, né di sete. E allora è opportuno, come ha fatto il cardinale Martini, interrogarsi su quando la medicina si debba fermare, “anche se questo provoca frustrazione e sconforto”, e quando sconfini in un inutile quanto crudele accanimento terapeutico, peraltro spesso contrario alle volontà espresse, in precedenza, dal moribondo. Per questo, credo che sia giunta l’ora di un confronto politico pacato, in cui il destino dei nostri ultimi giorni non sia oggetto di trattativa da parte di chi, come un chierichetto ateo, pone su un vassoio d’argento il nostro destino per aggraziarsi la Chiesa di un dio a cui non crede, per mero calcolo elettorale.E’ necessaria nel nostro Paese una legge che rispetti la libertà individuale, che dia la possibilità di decidere senza innalzare paletti, imporre dogmi o verità unilaterali. Che consenta, giuridicamente, di decidere quando mettere la parola fine ad una esistenza compromessa irreparabilmente dalla malattia e dal dolore. Una legge che consenta ai cattolici di proseguire artificialmente l’esistenza, anche attraverso l’idratazione e l’alimentazione enterale o parenterale “forzata”, ma anche ai non credenti o ai diversamente credenti, di porre fine ad un’esistenza che è già di per sé conclusa. Una legge che abbia a cuore la salute del malato e non la vita in sé, a prescindere dalla qualità. Quello che, invece, questo governo vorrebbe imporre agli italiani è un provvedimento che impedisca per legge, la possibilità di morire con dignità e nei tempi dettati dalla natura, una legge stravolta da dogmi religiosi in nome di un dio a cui non tutti credono e che, per chi crede, dopo averci resi liberi e dopo averci donato la vita, forse non vorrebbe imporci una fine così crudele. Infine, ma non per ordine di importanza, inviterei tutti a riflettere sull’imprescindibilità del nesso laicità-democrazia e laicità-libertà, rivolgendomi, in particolare, a coloro che si vantano di appartenere al Partito della Libertà.
E’ evidente che oggi, i progressi della medicina consentono un prolungamento artificiale della vita e quindi, un rinvio artificiale della morte: gli antibiotici, i respiratori meccanici, l’alimentazione parenterale e mille altre diavolerie sono in grado di rinviare sine die il momento del trapasso. In Italia sarebbero almeno 3000 le persone “senza speranza” che languono in un letto in una condizione che la medicina ufficiale definisce “vita vegetativa”. Uno stato ben definito: una situazione post-comatosa caratterizzata da un’involuzione atrofico-degenerativa della corteccia cerebrale, associata alla perdita di qualsiasi funzione superiore, come la parola, l’udito, la sete, la fame, il dolore… Si tratta, quindi, di una condizione irreversibile per definizione, in cui non è appropriato parlare di sofferenza, né di fame, né di sete. E allora è opportuno, come ha fatto il cardinale Martini, interrogarsi su quando la medicina si debba fermare, “anche se questo provoca frustrazione e sconforto”, e quando sconfini in un inutile quanto crudele accanimento terapeutico, peraltro spesso contrario alle volontà espresse, in precedenza, dal moribondo. Per questo, credo che sia giunta l’ora di un confronto politico pacato, in cui il destino dei nostri ultimi giorni non sia oggetto di trattativa da parte di chi, come un chierichetto ateo, pone su un vassoio d’argento il nostro destino per aggraziarsi la Chiesa di un dio a cui non crede, per mero calcolo elettorale.E’ necessaria nel nostro Paese una legge che rispetti la libertà individuale, che dia la possibilità di decidere senza innalzare paletti, imporre dogmi o verità unilaterali. Che consenta, giuridicamente, di decidere quando mettere la parola fine ad una esistenza compromessa irreparabilmente dalla malattia e dal dolore. Una legge che consenta ai cattolici di proseguire artificialmente l’esistenza, anche attraverso l’idratazione e l’alimentazione enterale o parenterale “forzata”, ma anche ai non credenti o ai diversamente credenti, di porre fine ad un’esistenza che è già di per sé conclusa. Una legge che abbia a cuore la salute del malato e non la vita in sé, a prescindere dalla qualità. Quello che, invece, questo governo vorrebbe imporre agli italiani è un provvedimento che impedisca per legge, la possibilità di morire con dignità e nei tempi dettati dalla natura, una legge stravolta da dogmi religiosi in nome di un dio a cui non tutti credono e che, per chi crede, dopo averci resi liberi e dopo averci donato la vita, forse non vorrebbe imporci una fine così crudele. Infine, ma non per ordine di importanza, inviterei tutti a riflettere sull’imprescindibilità del nesso laicità-democrazia e laicità-libertà, rivolgendomi, in particolare, a coloro che si vantano di appartenere al Partito della Libertà.
Il termine democrazia ha senso se in un sistema che vede contrapposte due tesi o un conflitto di valori, come nel caso del tema del testamento biologico, la politica non risolve tale conflitto attraverso la demonizzazione di una delle due idee, ma accettando, ove possibile le due soluzioni, aiutandole a convivere pacificamente, nel rispetto reciproco. Democrazia, e quindi laicità, è il riconoscimento delle diversità, è passione per il conflitto dei valori che devono coesistere e sono necessari per lo sviluppo democratico di un Paese. E allora se è vero che la politica è l’arte di trovare un accordo, in questa occasione, in cui, ancora una volta, il paese è spaccato in due tra i sostenitori della sacralità della vita e quelli della libertà di scelta e della dignità dell’uomo, respingiamo i fondamentalismi di ciascuna parte, respingiamo il radicalismo estremo e certo personalismo cattolico, che non aiutano la convivenza pacifica, così come auspicato dal credo religioso che è prevalente in questo Paese.
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